sempre avere un piano B

A freddo, sabato, senza preavviso alcuno, il palcoscenico mi ha chiamato di nuovo. Il microfono mi è piombato in mano e si sono aperte le danze. Di fianco coreografe personalissime. Intorno scenografie parietali pubiche e schiumose. Di tanto in tanto gli occhi del mio moroso [lo dico alla emiliana maniera, to' mo'] sopravvissuto magistralmente alle grinfie di uno slippino leopardato. Se non fosse che la Marchesa de Sade mi ha bruciato sul tempo i cavalli di battaglia, sarebbe stato tutto perfetto. L'occasione era troppo ghiotta per scoraggiarsi e ho fatto la mia porca figura con  l'altro mio classico, quello rromantico. A fine serata gli astanti entusiasti mi hanno omaggiato dell'appellativo: Caterina Caselli de' li Castelli.
Che vi devo dire, son cose che danno soddisfazioni in questo mondo triste.


Si, però la Marchesa non me lo doveva fare... adesso me la metto su e me la canto. E la dedico, ovviamente, a tutti quelli che ai fanatici in pelle ci credono davvero!

Emily tries but misunderstands, ah ooh

Quando arriva l'autunno e il tempo si fa bigio mi torna in mente il paesello dove sono cresciuta. Sarà che i colori si spengono e tutto si tinge di grigio; sarà che quel posto si è succhiato gratis la mia adolescenza e a distanza di anni non riesco ancora a perdonarlo. Mi dà uno strano malessere misto a malinconia il ripensarci. Il più delle volte cerco di concentrarmi su altro per non farlo.
Spesso mi son sentita dire che il posto da cui veniamo è importante e, con lui, le persone che ci hanno accompagnato. Ci provo tante volte a guardarmi indietro ma la mente fa fatica ad abbracciare qualcosa di confortevole. Vivo il ricordo come una colpa: la colpa di aver fatto le cose sbagliate, di aver scelto le persone sbagliate. La colpa di esser nata lì, di non esser stata abbastanza forte da non lasciarmi sopraffare da ciò che avevo intorno. Da ciò che, nel corso degli anni a seguire, avrei potuto fare e non ho fatto.
Ho passato un' infinità di giorni a cercare, tra le persone, negli angoli della città; a intruppare contro dinamiche che, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capire; a sognare dal chiuso di una stanza, su una collina poco distante. Un giorno ho deciso di smettere, ho fatto spallucce e me ne sono andata, con un pugno di mosche in tasca e la voglia di non tornare più. Non me ne sono mai pentita, ma da allora è come se mi portassi dietro un blocchetto di cemento che tengo dentro, in un posto dove nessuno può arrivare. E' lì, ne sento il peso e, a tratti, l'invadenza.
A volte ho la sensazione che non riuscirò mai a liberarmene.